A FUOCO CONTINUO_ 2018
Sospensioni continue, testo di Stefano Volpato - Curatore
Nel suo lavoro per TRA Treviso Ricerca Arte, Dario Picariello affronta una triplice sfida: ricercare un dialogo con un luogo, con la sua storia e con il senso del proprio operare.
A fuoco continuo mette in mostra il frutto di alcune sessioni di shooting, svoltesi durante l’inverno 2017, presso la fornace Guerra Gregorj di Sant’Antonino, a Treviso, al termine di una ricerca lunga e articolata che ha come fulcro l’opificio trevigiano. Allo stesso tempo, la serie è una nuova tappa dove si ritrovano alcune linee di tensione che attraversa- no trasversalmente il percorso del giovane artista irpino. Come di consueto negli interventi di Picariello, gli scatti vengono allestiti nello spazio tramite un impiego inusuale degli strumenti del backstage fotografico – stativi, softbox, pannelli riflettenti. In quest’occasione, essi sono raccordati dallo scorrimento su di un binario che attraversa longitudinalmente lo spazio, organizzando gli elementi in una grande installazione che sembra essersi fermata a Ca’ dei Ricchi, pronta per ripartire.
La rifunzionalizzazione di questi oggetti, da attrezzature per realizzare la fotografia a supporti per esporla, anticipa il carattere di mise-en-scene delle immagini. La pratica di Picariello è vicina al filone della staged photography – fotografia, appunto, messa in scena. Ma in A Fuoco Continuo il set non è lo studio, dove si progetta e costruisce a tavolino, bensì la flagranza del reale. In particolare, nel caso della fornace Gregorj, la sua complessità e reticenza. Si richiama una strategia antica, rispondente a una pulsione di esplorazione identitaria, di auto- conoscenza. Grazie all’illusione di verità del dispositivo fotografico (agganciato da un nesso diretto alla realtà), un soggetto, un oggetto, un luogo possono essere altro da sé, non qui e ora, ma altrove o in un altro tempo. Quanto più sarà sottile la costruzione finzionale, tanto più essa sarà non già credibile – la narrazione rimane pur sempre finzione, e come abbiamo visto è subito dichiarata dall’artista, fin dagli elementi dell’allestimento – bensì capace di ibridarsi con il senso del vero: è lo stratagemma per suggerire uno scarto dal presente, aprire uno spazio all’immaginazione. Tutta la serie è condotta in tensione tra due poli, due strategie. La prima, una dimensione sottilmente narrativa, a partire da un presente che risulta opaco, testardamente silenzioso, quello degli ambienti vecchi e polverosi di una gloriosa fornace in disuso da decenni. Questa si fa più evidente in quegli scatti in cui interviene la figura umana ad abitarne gli ambienti, con gestualità che fanno riferimento a temi dell’iconografia della storia dell’arte, in chiave tuttavia del tutto personale e contemporanea. Esemplare è la reinterpretazione dell’Adamo ed Eva, laddove le due figure si collocano al centro di in uno spazio dinamico, plasticamente espanso, nuovamente vitale grazie al taglio dell’inquadratura. A queste vere e proprie scene si alternano composizioni più essenziali e rarefatte, in cui gli elementi trovati in loco come vecchi arnesi e stampi, mobilio, fino a macchie e muffe delle murature, risultano in bilico tra una sensazione di sconsolato abbandono e, invece, la cura della loro ricomposizione formale. La fotografia di Picariello non si risolve mai in natura morta dal gusto estetizzante, ma piuttosto si gioca su di una dimensione di sospensione, di attesa. Come nel caso dei supporti che le mostrano, le immagini funzionano come dei ready-made visivi: agganciati a un dato di realtà, ne trasfigura- no la percezione. La ricerca della propria identità, sfuggente, incerta e precaria, perturbante, è tema pregnante per l’artista irpino: egli la svolge per riflessione, come davanti ad uno specchio. In questo caso sono un luogo, la fornace Gregorj, e la sua storia a costituire il set su cui si misura l’artista, tra un presente che abbiamo definito opaco, reticente e la capacità di riscattarlo, di recuperarne la profondità, il valore. La narrazione, nel lavoro di Picariello, si spoglia di ogni connotato affabulatorio, avanzando su un crinale sottile. Da questo punto di vista, il suo è un approccio radicale, concernente le possibilità stesse dell’operare. La chance di poter lavorare sulla fornace di Sant’Antonino si concretizza grazie alla generosità della sua proprietaria, Luisa Gregorj. Nel progetto di Dario Picariello, ella intravede il potenziale di ricostruzione simbolica, contribuendovi con uno stimolo importante: I la convinzione incrollabile che, a distanza di decenni e pur nel degrado in cui versa, la fornace non è ancora muta. Da questo stato di non ancora silenzio si è sviluppata l’indagine, oltre che dalla suggestione esercitata dalla straordinaria vicenda dell’opificio, che non si potrà in questa sede trattare esaurientemente. Ci si limiterà a ricordare che la fornace, di cui un primo nucleo viene costruito nel 1840, vive un periodo di eccezionale fulgore tra XIX e XX secolo, quindi un declino più o meno graduale fino alla definitiva chiusura, nel 1963. Artefice di questa felice congiuntura è il nonno di Luisa, Gregorio Gregorj, il quale introduce una novità tecnica, il forno Hoffmann, la cui forma circolare consente di organizzare la cottura dei laterizi per successive infornate.
A ciclo continuo: il fuoco non si ferma mai, giorno e notte. Di qui l’intuizione e la possibilità di investire in una produzione più specificamente artistica, e dare vita così alla Sala degli Artisti. Gregorio la concepisce come un vero laboratorio di ricerca, stilistica e tecnica, dove chiama artisti esperti e giovani talentuosi, contribuendovi in prima persona, procurando materiali grafici e fittili da tutto il mondo – da antiche statuette di Tanagra a oggetti acquistati nelle esposizioni internazionali, fino a rilegature di pattern decorativi dall’Estremo Oriente. Vi transitano moltissimi artisti: il più noto è Arturo Martini, di cui Gregorj scorge il genio insieme all’abate Luigi Bailo; ma si pensi anche al suo maestro, Antonio Carlini, o al suo rivale, il più anziano Piero Murani. Quindi Gino Rossi, oppure l’altro Martini, Alberto, autore dell’iconica insegna che ancora oggi campeggia in fornace. È sempre in quest’ottica che Gregorio sostiene il viaggio di Arturo Martini a Monaco di Baviera, nel 1909. L’esperienza mitteleuropea consente, oltre che alla fornace di aggiornare le proprie lavorazioni secondo un gusto più moderno e internazionale, allo stesso scultore trevigiano di trovare il passo che scandirà una luminosissima carriera. Ma l’azione dell’oscuro fornaciaio II, come lo stesso imprenditore si definisce, va oltre le mura del proprio opificio, rivelandosi anch’essa continua. Gregorio non solo mette in pratica un proficuo dialogo tra arte e industria, ma si preoccupa di diffondere le sue convinzioni, sia come pubblicista che attraverso l’impegno politico-amministrativo. Ne è un esempio l’ampio e acceso dibattito sul- la modernizzazione della stazione ferroviaria di Treviso, che lo vede proporre una soluzione tanto radicale quanto lungimirante e incompresa: ne con- seguirà il crescente isolamento della sua fornace, alla lunga uno dei fattori che la porterà al declino. Nel momento in cui muove i primi passi una società industriale e di massa, la vicenda dell’opificio di Sant’Antonino e di Gregorio Gregorj meriterebbe un inquadramento in quel fronte che propugna una concezione d’arte applicata, in cui l’artista-artigiano è responsabile, per usare le stesse parole dell’imprenditore trevigiano, di un pensiero armonico, III quindi anche critico, tra speculazione e prassi, tra mondo delle idee e delle cose. Per chiarire il collegamento tra l’artefice inventore e l’esecutività materiale, egli ricorre al calzante esempio di chi, padroneggiando due lingue – insiemi simbolici diversi – si trova a tradurre l’idea madre del soggetto, nella stessa guisa che un traduttore di opera letteraria eccellente deve comprendere il pensiero che dominava il formatore dell’opera stessa, e deve sentirne l’intimo significato per non tradire la sostanza degli argomenti e la bellezza della forma. IV La parabola di Gregorio Gregorj rappresenta tuttavia una potente metafora che si pone in tutta la sua attualità, nel momento in cui ci interroghiamo su cosa sopravviva del suo pensiero e della sua azione. In questo senso, confrontarsi con la possibilità del fallimento incarnata oggi della fornace implica, per Dario Picariello, mettere alla prova l’effettività del proprio operare. Il problema non può quindi risolversi scansionando epidermicamente le rimanenze archeologiche: sarà invece necessario relazionarsi con il luogo, scalfirne l’inerzia apparente, stabilire un dialogo per coglierne la profondità. Da qui parte Dario Picariello con il proprio lungo e paziente lavoro di tessitura, di traduzione come riconnessione simbolica tra due lingue diverse, entrambe parlate in fornace, quella del passato e del presente. Il primo passo è riaccendere, metaforicamente, il sito. Lo si può fare riportandovi l’attività febbri- le del lavoro, grazie alla collaborazione degli studenti del Liceo Artistico Statale di Treviso, che realizzano con la tecnica del colombino il grande vaso in terracotta al centro dell’ultimo scatto di A Fuoco Continuo. Tornare a lavorare in fornace è soffiare via la polvere, contestarne il decadimento, desacralizzarne le rovine. Per dirla con il cileno Nicanor Parra, l’artista, come il poeta, cambia il nome alle cose. Il mezzà, la mattonaia, il granaio, il forno non sono più vecchi corpi di fabbrica vuoti, ma nuovamente luoghi dove accade che un gruppo di persone agisca organicamente secondo un progetto e un intento condiviso: esecutività materiale e artefice inventore tornano a lavorare insieme. Il secondo passo riattiva il pro- cesso della memoria. Presso le vicine Fornaci del Sile, lungo l’omonimo fiume a Musestre, Picariello invita un gruppo di persone vicine a Luisa Gregorj (grazie, ancora una volta, alla sua generosa mediazione) a reimpossessarsi del ricordo di un oggetto caro, andato perduto. A una prima descrizione verbale che lo contestualizza e ne condivide la pregnanza e i dettagli con tutti i partecipanti, segue il disegno e quindi la modellazione in argilla, ciascuno secondo le proprie capacità. Non è il risultato ad interessare, ma il potenziale liberatorio del processo. Il ricordo riprende fisicamente forma nell’argilla plasmata dalle proprie mani, risponde nuovamente ad un nuovo nome. Pensiero e azioni possono ricostruire, riconnettere presente e passato, in una forma nuova.
L’ultimo atto del percorso di Dario Picariello, la serie A fuoco continuo, sembra quindi suggerire come proprio nella forma risieda la peculiare possibilità di agire, propria dell’artista. Ma con essa si instaura un rapporto ancora una volta ambivalente, di mediazione, in bilico tra due possibilità che vanno riconnesse, corrispondenti a quelle strategie della narrazione e della sospensione che attraversano gli scatti dell’artista. A mezz’aria, sui binari che attraversano il piano nobile di Ca’ dei Ricchi, l’articolazione delle figure senza volto negli ambienti della fornace ripercorre la parabola dell’oscuro fornaciaio. Ciascun elemento dell’installazione ne restituisce alcune suggestioni: il duro lavoro, l’impegno, l’amore materno e coniugale, l’amara sconfitta nel tentativo di ricostituire la Sala degli Artisti. Tuttavia la carica narrativa si gioca sempre su di un senso di precarietà, di frustrazione: le figure di Picariello, protese in slanci eroici, appaiono al contempo fragili. Allo stesso modo, dove invece sono gli ambienti e gli oggetti della fornace a prendere la scena, l’equilibrio delle composizioni formali che ne esalta il valore, non può superarne del tutto il dramma di un presente di abbandono. Più che i temi iconografici, è questa generale sensazione di sospensione e di precarietà a rievocare la tensione scultorea di Arturo Martini, nella fase un po’ più matura rispetto ai tempi della permanenza alla fornace di Sant’Antonino. La celebre Venere dei Porti, oggi al Museo Bailo di Treviso, sembra condividere una sensazione che è anche nelle fotografie di A Fuoco Continuo. L’incessante ricerca della forma, che impegnò totalmente lo scultore trevigiano per tutta la sua vita, si conduce tra il suo disvelamento e sfuggenza, tra la sua intuizione e indicibilità. Nel continuare il processo, rimettendone a fuoco i termini, il lavoro di Dario Picariello ci invita a vedere oltre a quanto resta della fornace, plasticamente evidenziando la fertilità del pensiero e dell’azione, il loro valore anche quando questi si rivelano apparentemente fallimentari. Si contesta la stessa concezione del fallimento, che non è un rovescio senza appello, ma una tappa, un passo precedente al successivo. In questo senso, il ritratto di Gregorio è in fondo un autoritratto dell’artista e un po’ di tutti noi, quando il nostro operato si carica di tensione ideale, il pensiero si allarga a una visione più ampia.
La rifunzionalizzazione di questi oggetti, da attrezzature per realizzare la fotografia a supporti per esporla, anticipa il carattere di mise-en-scene delle immagini. La pratica di Picariello è vicina al filone della staged photography – fotografia, appunto, messa in scena. Ma in A Fuoco Continuo il set non è lo studio, dove si progetta e costruisce a tavolino, bensì la flagranza del reale. In particolare, nel caso della fornace Gregorj, la sua complessità e reticenza. Si richiama una strategia antica, rispondente a una pulsione di esplorazione identitaria, di auto- conoscenza. Grazie all’illusione di verità del dispositivo fotografico (agganciato da un nesso diretto alla realtà), un soggetto, un oggetto, un luogo possono essere altro da sé, non qui e ora, ma altrove o in un altro tempo. Quanto più sarà sottile la costruzione finzionale, tanto più essa sarà non già credibile – la narrazione rimane pur sempre finzione, e come abbiamo visto è subito dichiarata dall’artista, fin dagli elementi dell’allestimento – bensì capace di ibridarsi con il senso del vero: è lo stratagemma per suggerire uno scarto dal presente, aprire uno spazio all’immaginazione. Tutta la serie è condotta in tensione tra due poli, due strategie. La prima, una dimensione sottilmente narrativa, a partire da un presente che risulta opaco, testardamente silenzioso, quello degli ambienti vecchi e polverosi di una gloriosa fornace in disuso da decenni. Questa si fa più evidente in quegli scatti in cui interviene la figura umana ad abitarne gli ambienti, con gestualità che fanno riferimento a temi dell’iconografia della storia dell’arte, in chiave tuttavia del tutto personale e contemporanea. Esemplare è la reinterpretazione dell’Adamo ed Eva, laddove le due figure si collocano al centro di in uno spazio dinamico, plasticamente espanso, nuovamente vitale grazie al taglio dell’inquadratura. A queste vere e proprie scene si alternano composizioni più essenziali e rarefatte, in cui gli elementi trovati in loco come vecchi arnesi e stampi, mobilio, fino a macchie e muffe delle murature, risultano in bilico tra una sensazione di sconsolato abbandono e, invece, la cura della loro ricomposizione formale. La fotografia di Picariello non si risolve mai in natura morta dal gusto estetizzante, ma piuttosto si gioca su di una dimensione di sospensione, di attesa. Come nel caso dei supporti che le mostrano, le immagini funzionano come dei ready-made visivi: agganciati a un dato di realtà, ne trasfigura- no la percezione. La ricerca della propria identità, sfuggente, incerta e precaria, perturbante, è tema pregnante per l’artista irpino: egli la svolge per riflessione, come davanti ad uno specchio. In questo caso sono un luogo, la fornace Gregorj, e la sua storia a costituire il set su cui si misura l’artista, tra un presente che abbiamo definito opaco, reticente e la capacità di riscattarlo, di recuperarne la profondità, il valore. La narrazione, nel lavoro di Picariello, si spoglia di ogni connotato affabulatorio, avanzando su un crinale sottile. Da questo punto di vista, il suo è un approccio radicale, concernente le possibilità stesse dell’operare. La chance di poter lavorare sulla fornace di Sant’Antonino si concretizza grazie alla generosità della sua proprietaria, Luisa Gregorj. Nel progetto di Dario Picariello, ella intravede il potenziale di ricostruzione simbolica, contribuendovi con uno stimolo importante: I la convinzione incrollabile che, a distanza di decenni e pur nel degrado in cui versa, la fornace non è ancora muta. Da questo stato di non ancora silenzio si è sviluppata l’indagine, oltre che dalla suggestione esercitata dalla straordinaria vicenda dell’opificio, che non si potrà in questa sede trattare esaurientemente. Ci si limiterà a ricordare che la fornace, di cui un primo nucleo viene costruito nel 1840, vive un periodo di eccezionale fulgore tra XIX e XX secolo, quindi un declino più o meno graduale fino alla definitiva chiusura, nel 1963. Artefice di questa felice congiuntura è il nonno di Luisa, Gregorio Gregorj, il quale introduce una novità tecnica, il forno Hoffmann, la cui forma circolare consente di organizzare la cottura dei laterizi per successive infornate.
A ciclo continuo: il fuoco non si ferma mai, giorno e notte. Di qui l’intuizione e la possibilità di investire in una produzione più specificamente artistica, e dare vita così alla Sala degli Artisti. Gregorio la concepisce come un vero laboratorio di ricerca, stilistica e tecnica, dove chiama artisti esperti e giovani talentuosi, contribuendovi in prima persona, procurando materiali grafici e fittili da tutto il mondo – da antiche statuette di Tanagra a oggetti acquistati nelle esposizioni internazionali, fino a rilegature di pattern decorativi dall’Estremo Oriente. Vi transitano moltissimi artisti: il più noto è Arturo Martini, di cui Gregorj scorge il genio insieme all’abate Luigi Bailo; ma si pensi anche al suo maestro, Antonio Carlini, o al suo rivale, il più anziano Piero Murani. Quindi Gino Rossi, oppure l’altro Martini, Alberto, autore dell’iconica insegna che ancora oggi campeggia in fornace. È sempre in quest’ottica che Gregorio sostiene il viaggio di Arturo Martini a Monaco di Baviera, nel 1909. L’esperienza mitteleuropea consente, oltre che alla fornace di aggiornare le proprie lavorazioni secondo un gusto più moderno e internazionale, allo stesso scultore trevigiano di trovare il passo che scandirà una luminosissima carriera. Ma l’azione dell’oscuro fornaciaio II, come lo stesso imprenditore si definisce, va oltre le mura del proprio opificio, rivelandosi anch’essa continua. Gregorio non solo mette in pratica un proficuo dialogo tra arte e industria, ma si preoccupa di diffondere le sue convinzioni, sia come pubblicista che attraverso l’impegno politico-amministrativo. Ne è un esempio l’ampio e acceso dibattito sul- la modernizzazione della stazione ferroviaria di Treviso, che lo vede proporre una soluzione tanto radicale quanto lungimirante e incompresa: ne con- seguirà il crescente isolamento della sua fornace, alla lunga uno dei fattori che la porterà al declino. Nel momento in cui muove i primi passi una società industriale e di massa, la vicenda dell’opificio di Sant’Antonino e di Gregorio Gregorj meriterebbe un inquadramento in quel fronte che propugna una concezione d’arte applicata, in cui l’artista-artigiano è responsabile, per usare le stesse parole dell’imprenditore trevigiano, di un pensiero armonico, III quindi anche critico, tra speculazione e prassi, tra mondo delle idee e delle cose. Per chiarire il collegamento tra l’artefice inventore e l’esecutività materiale, egli ricorre al calzante esempio di chi, padroneggiando due lingue – insiemi simbolici diversi – si trova a tradurre l’idea madre del soggetto, nella stessa guisa che un traduttore di opera letteraria eccellente deve comprendere il pensiero che dominava il formatore dell’opera stessa, e deve sentirne l’intimo significato per non tradire la sostanza degli argomenti e la bellezza della forma. IV La parabola di Gregorio Gregorj rappresenta tuttavia una potente metafora che si pone in tutta la sua attualità, nel momento in cui ci interroghiamo su cosa sopravviva del suo pensiero e della sua azione. In questo senso, confrontarsi con la possibilità del fallimento incarnata oggi della fornace implica, per Dario Picariello, mettere alla prova l’effettività del proprio operare. Il problema non può quindi risolversi scansionando epidermicamente le rimanenze archeologiche: sarà invece necessario relazionarsi con il luogo, scalfirne l’inerzia apparente, stabilire un dialogo per coglierne la profondità. Da qui parte Dario Picariello con il proprio lungo e paziente lavoro di tessitura, di traduzione come riconnessione simbolica tra due lingue diverse, entrambe parlate in fornace, quella del passato e del presente. Il primo passo è riaccendere, metaforicamente, il sito. Lo si può fare riportandovi l’attività febbri- le del lavoro, grazie alla collaborazione degli studenti del Liceo Artistico Statale di Treviso, che realizzano con la tecnica del colombino il grande vaso in terracotta al centro dell’ultimo scatto di A Fuoco Continuo. Tornare a lavorare in fornace è soffiare via la polvere, contestarne il decadimento, desacralizzarne le rovine. Per dirla con il cileno Nicanor Parra, l’artista, come il poeta, cambia il nome alle cose. Il mezzà, la mattonaia, il granaio, il forno non sono più vecchi corpi di fabbrica vuoti, ma nuovamente luoghi dove accade che un gruppo di persone agisca organicamente secondo un progetto e un intento condiviso: esecutività materiale e artefice inventore tornano a lavorare insieme. Il secondo passo riattiva il pro- cesso della memoria. Presso le vicine Fornaci del Sile, lungo l’omonimo fiume a Musestre, Picariello invita un gruppo di persone vicine a Luisa Gregorj (grazie, ancora una volta, alla sua generosa mediazione) a reimpossessarsi del ricordo di un oggetto caro, andato perduto. A una prima descrizione verbale che lo contestualizza e ne condivide la pregnanza e i dettagli con tutti i partecipanti, segue il disegno e quindi la modellazione in argilla, ciascuno secondo le proprie capacità. Non è il risultato ad interessare, ma il potenziale liberatorio del processo. Il ricordo riprende fisicamente forma nell’argilla plasmata dalle proprie mani, risponde nuovamente ad un nuovo nome. Pensiero e azioni possono ricostruire, riconnettere presente e passato, in una forma nuova.
L’ultimo atto del percorso di Dario Picariello, la serie A fuoco continuo, sembra quindi suggerire come proprio nella forma risieda la peculiare possibilità di agire, propria dell’artista. Ma con essa si instaura un rapporto ancora una volta ambivalente, di mediazione, in bilico tra due possibilità che vanno riconnesse, corrispondenti a quelle strategie della narrazione e della sospensione che attraversano gli scatti dell’artista. A mezz’aria, sui binari che attraversano il piano nobile di Ca’ dei Ricchi, l’articolazione delle figure senza volto negli ambienti della fornace ripercorre la parabola dell’oscuro fornaciaio. Ciascun elemento dell’installazione ne restituisce alcune suggestioni: il duro lavoro, l’impegno, l’amore materno e coniugale, l’amara sconfitta nel tentativo di ricostituire la Sala degli Artisti. Tuttavia la carica narrativa si gioca sempre su di un senso di precarietà, di frustrazione: le figure di Picariello, protese in slanci eroici, appaiono al contempo fragili. Allo stesso modo, dove invece sono gli ambienti e gli oggetti della fornace a prendere la scena, l’equilibrio delle composizioni formali che ne esalta il valore, non può superarne del tutto il dramma di un presente di abbandono. Più che i temi iconografici, è questa generale sensazione di sospensione e di precarietà a rievocare la tensione scultorea di Arturo Martini, nella fase un po’ più matura rispetto ai tempi della permanenza alla fornace di Sant’Antonino. La celebre Venere dei Porti, oggi al Museo Bailo di Treviso, sembra condividere una sensazione che è anche nelle fotografie di A Fuoco Continuo. L’incessante ricerca della forma, che impegnò totalmente lo scultore trevigiano per tutta la sua vita, si conduce tra il suo disvelamento e sfuggenza, tra la sua intuizione e indicibilità. Nel continuare il processo, rimettendone a fuoco i termini, il lavoro di Dario Picariello ci invita a vedere oltre a quanto resta della fornace, plasticamente evidenziando la fertilità del pensiero e dell’azione, il loro valore anche quando questi si rivelano apparentemente fallimentari. Si contesta la stessa concezione del fallimento, che non è un rovescio senza appello, ma una tappa, un passo precedente al successivo. In questo senso, il ritratto di Gregorio è in fondo un autoritratto dell’artista e un po’ di tutti noi, quando il nostro operato si carica di tensione ideale, il pensiero si allarga a una visione più ampia.