DARIO PICARIELLO








MASCARATA _
2016


La Mascarata - alcune note sul lavoro di Dario Picariello,

testo di Eugenio Viola  Chief Curator del Museo d’Arte Moderna di Bogotà – MAMBO


7. Ibidem


“La maschera è legata alla gioia degli avvicendamenti e delle reincarnazioni, […] è legata agli spostamenti, alle metamorfosi, alle violazioni delle barriere naturali, alla ridicolizzazione, ai nomignoli (accompagnati dai nomi); in essa è incarnato il principio giocoso della vita; alla sua base sta il rapporto del tutto particolare della realtà e dell’immagine, caratteristico di tutte le forme più antiche di riti e spettacoli. È nella maschera che si rivela molto chiaramente l’essenza del grottesco1”.

Il termine “mascarata”, nel napoletano antico indica l’equivalente dell’italiano “mascherata”. Il tema della maschera e del mascheramento è polisemico e si pone all’incrocio di numerose discipline, che spaziano dall’etnografa alla sociologia, dalla flosofa alla psicologia. La maschera allude a un’identità, ne diviene strumento complementare e complice. Nel mascheramento, rileva Marcel Mauss, è in gioco una molteplicità di ruoli, nomi e funzioni ma è anche in gioco il loro potenziale annullamento2. Non a caso, il processo di mascheramento introduce, più radicalmente, nel cuore di una vasta simbologia del corpo che diviene una stratifcazione multipla, seriale e dinamica, espressione di un’identità liquida e costantemente in transito.

In sostanza un montaggio linguistico dal carattere fsiologico, psicologico e sociologico3. Fondamentali gli studi condotti da Michail Bachtin sull’opera di Rabelais, che indagano le fonti e l’evoluzione della cultura popolare, legata alle forme e ai simboli carnevaleschi, a quello che lo studioso defnisce realismo grottesco, ovvero il sistema di immagini della cultura comica, in cui l’elemento “basso”, materiale e corporeo, costituisce un principio profondamente positivo.

Dalle parole di Bachtin emerge tutta l’esemplarità che la maschera e il mascheramento rivestono nella cultura tradizionale e nella rielaborazione carnevalesca della realtà, da cui derivano le varie declinazioni del grottesco, e per estensione i meccanismi e i procedimenti tramite i quali è possibile accedere a livelli diferenti di percezione dell’esistente.

D’altronde l’esigenza del mascheramento nasce come esigenza di prendere distanza da se stessi e dalla piatta banalità della consuetudine quotidiana, per evadere da un rigido schematismo identitario e osservarsi da una prospettiva altra, diferente, straniante. L’esigenza di mascherarsi è legata alla necessità di non farsi riconoscere per poter agire più liberamente, di sganciarsi dai vincoli di un ordine precostituito. Permette, in sostanza, l’accesso ad una dimensione alternativa, la partecipazione a un rito di emancipazione collettiva ed ofre la possibilità di apportare un proprio personale contributo alla ridefnizione, seppure giocosa, di stereotipi vuoti, di norme sclerotizzate, di uno sterile apparato di principi e regole da ribaltare.

La maschera crea uno scarto rispetto a una presunta normalità ed in primo luogo rispetto a un’immagine codifcata e socialmente accettata. Sotto questo proflo, l’atto del mascherarsi si carica di una forte valenza culturale, che incide in misura più o meno profonda sulla compagine sociale nella quale si consuma. Le maschere hanno un peso inequivocabile nell’economia carnevalesca: dietro le fattezze vistose ed esasperate dei corpi mascherati si cela un’anima sopita, che rimpiazza provvisoriamente quella che ognuno di noi porta dentro di sé durante il resto dell’anno.

Le società tradizionali, celebravano nel carnevale un rito di propiziazione, di purifcazione e di rigenerazione. Bachtin nel suo studio pioneristico, ricorda come tutte queste forme di riti e spettacoli siano state molto difuse in tutti i paesi dell’Europa medievale, distinguendosi in quanto a ricchezza e complessità nei paesi di cultura romanza, particolarmente in Francia. Erano forme organizzate sul principio del riso, assolutamente “altre” rispetto alle forme di culto, come anche alle cerimonie ufciali “serie”, organizzate dalla chiesa nel sist ma dello stato feudale. Rivelavano, in sostanza, un aspetto parallelo del mondo, dell’uomo e dei rapporti umani, non ufficiale, esterno alla Chiesa e allo Stato stesso: proponevano un secondo mondo e una seconda vita di cui erano partecipi, in misura più o meno grande, tutti gli uomini del Medioevo, in corrispondenza di alcune date particolari. Tutto ciò aveva creato un particolare dualismo del mondo, e non sarebbe possibile comprendere né la coscienza culturale del Medioevo, né la stessa cultura del Rinascimento senza tenere in considerazione questo dualismo.

«Il carnevale, in opposizione alla festa ufciale, era il trionfo di una sorta di liberazione temporanea dalla verità dominante e dal regime esistente, l’abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, dei privilegi, delle regole e dei tabù, rileva Bachtin. Era l’autentica festa del tempo, del divenire, degli avvicendamenti e del rinnovamento. Si opponeva a ogni perpetuazione, a ogni carattere defnitivo e a ogni fne. Volgeva il suo sguardo all’avvenire incompiuto4». Un signifcato del tutto particolare, nell’ambito di queste feste, era costituito dall’abolizione di tutti i rapporti gerarchici, diversamente dalle feste ufciali, che invece celebravano la disuguaglianza: in esse bisognava apparire con tutte le insegne legate al proprio titolo, grado e stato, e conseguentemente occupare il posto assegnato al proprio rango. Al contrario, almeno a carnevale, tutti erano considerati uguali e regnava la forma particolare del contatto familiare e libero fra le persone, separate nella vita normale da barriere insormontabili, legate a disparità connesse a diferenti condizioni sociali, economiche e culturali. Tutta la ricerca di Dario Picariello attinge alle densità simboliche della maschera ed alle possibilità, potenzialmente infnite, legate al mascheramento. In particolare, Mascarata è un progetto ispirato a una delle varietà del carnevale irpino, la cui origine risale alla metà del Seicento5.

Originariamente queste rappresentazioni nascono a Napoli come scenette carnevalesche, cantate al suono del trombone e della gran cassa, per difondersi velocemente in tutto il Regno, dove si impiantano stabilmente agli inizi dell’Ottocento. Sono rappresentate nei cortili dei palazzi, nelle osterie e nelle piazze, fno a quando sono ufcialmente proibite, per il carattere licenzioso e potenzialmente sovversivo, nella seconda metà dell’Ottocento, per assumere, infne, i caratteri di uno spettacolo teatrale messo in scena nel periodo di Carnevale, radicandosi nelle accezioni vernacolari che sopravvivono, ancora oggi, in Irpinia: il Carnevale di Montemarano, il ballo “O ’ntreccio” di Forino, la “’ndrezzata” di Cervinara, lo “Squqqualacchiun” di Teora, il laccio d’amore di Sirignano, “A’ Mascarata” di Piazza di Pandola e quella Biagiana, i carri allegorici di Paternopoli e Gesualdo, la “Zeza” di Mercogliano, che è probabilmente la forma più conosciuta, perché utilizzata da Pier Paolo Pasolini come colonna sonora del suo Decameron (1971). Ognuno di questi territori conserva tradizioni diferenti, tramandatesi nel corso dei secoli. Comune a tutte queste rappresentazioni è la partecipazione esclusiva di uomini, che in chiave quasi archetipica, come nell’antica commedia greca, mettono in scena anche i ruoli femminili, poiché in passato le donne non potevano essere esposte alla pubblica rappresentazione. Tutte loro, inoltre, hanno profondi legami con il mondo rurale, con una cultura appartenente ai riti beneauguranti di rifondazione del ciclo annuale delle campagne. In particolare nella Mascarata, i protagonisti, vestiti con gli abiti tipici del folklore, festeggiano al ritmo di una musica incalzante lo svolgimento di un matrimonio, eseguendo le fgure tradizionali della Botta e della ’Ndrezzata (intrecciata). Gli ospiti del matrimonio, i belli e le belle, sono vestiti a festa e partecipano all’evento danzando al ritmo della tarantella rossiniana, la cui riproposizione popolare è realizzata con strumenti da “strada”. Una serie di maschere fsse sono interpreti della sflata che a ritmo di musica è diretta dal capofla, il “pim’ommo”, il più bello e il più bravo nel ballo, vestito di velluto con pantaloni alla zuava, camicia, panciotto e un cappello sormontato da un pennacchio. Col passare del tempo, la Mascarata è stata ingentilita con l’aggiunta delle “belle” signifcativamente interpretate dalle donne del paese, il cui costume consiste in un’ampia gonna dai colori sgargianti a pieghe ed una camicetta ricamata di colore chiaro. Fuori fla imperversano le “’mpacchiatrici”, uomini vestiti da donne che indossano lo stesso costume, muniti di parrucche e di un trucco vistoso, il cui ruolo è quello di organizzare e incitare al ballo e ai festeggiamenti, armati di “scoppetta”, ovvero di un fucile caricato a cipria e sparato con un sofo sui passanti.

La sposa è un uomo vestito da donna, il cui vestito è preso in prestito da una delle giovani del paese sposate nell’anno, che regala ai passanti fagottini di stofa con all’interno confetti-nuziali, mentre lo sposo, in genere dai tratti rozzi, con l’ausilio della cosiddetta “scaletta”, regala alle signore afacciate ai balconi ramoscelli di mimosa.

Nelle fotografe di questa serie, come in quelle che caratterizzano tutta la sua produzione precedente, il carattere misterioso del dispositivo fotografco di Picariello assume un carattere rivelatore. Qui in particolare, la prosaicità del tema afrontato si riscatta all’insegna di una epifania sospesa, in cui la sacralizzazione del profano e la profanazione del sacro si risolvono in tensioni bipolari che coesistono nello spazio dell’opera. Le sue ambientazioni misteriose, sempre rigorosamente calibrate, si caratterizzano per una sapiente costruzione formale, risolta attraverso mises-en-scène complesse eppure composte da pochi, semplici elementi.

Da un lato denunciano l’appartenenza alla tradizione del tableau vivant, ovvero richiamano una teatralizzazione dell’immagine che rimanda alle origini stesse della fotografa, dall’altro si pongono sulla scia di una lunga serie di artisti, legati alla tradizione della cosiddetta staged photography, genere che sfrutta le potenzialità narrative e illusionistiche della fotografa e che include personalità diverse: da Gregory Crewdson a Jef Wall, da Sandy Skoglund a James Casebere, da Hiroshi Sugimoto a David Lachapelle, da Sarah Moon a Leslie Krims, da Cindy Sherman a Nobuyoshi Araki, da Yasumasa Morimura a Joel Peter Witkin, per riverberare in una generazione più giovane di artisti come Adi Nes, Shizuka Yokomizo, Jemima Stehli, Thomas Demand, Bernard Faucon, William Wegman, Elad Lassry e molti altri.

In Mascarata, Picariello gioca sul rapporto, scivoloso, tra identità e rappresentazione: il personaggio che compare nelle foto di questa serie, è sempre impersonato dall’artista attraverso una serie di autoscatti stranianti, è posto davanti allo spettatore in modo tanto (o)stentato da produrre un efetto di mascherata mistica, in cui la questione del travestimento e dell’indossare i panni di un altro rimanda, oltre le mere questioni di esteriorità indumentale, alla questione identitaria, dove l’autoritratto restituisce in realtà il suo rovescio in un deliquio narcisistico compiaciuto e decadente. «Come sempre l’artista si attiene fedelmente a un codice istituito, in questo caso a quello dell’identità dell’individuo, alla regola dell’uno, rileva opportunamente Alberto Boatto. Ma lo fa solo per travolgerlo, per scovare, fra il mito classico e la lezione della psicoanalisi, una duplice identità6». Io è un Altro (Rimbaud), poiché «raddoppiarsi esdoppiarsi equivalgono pur sempre a specchiarsi7». Inoltre, il rapporto ironicamente autoreferenziale si estende qui agli strumenti del mestiere, che diventato supporto materiale per le immagini, che si accampano su pannelli rifettenti, su difusori fotografci, su fash anulari, su softbox e su stativi. Le fotografe del giovane artista ci appaiono come fermi immagine, realizzati in un’atmosfera densa e rarefatta, a volte atemporale, come nella serie realizzata nell’ex carcere di Procida (Cinquecentouno, 2015), un edifcio nato originariamente come castello d’Avalos alla fne del Cinquecento e successivamente trasformato dai Borbone in bagno penale, in cui le immagini sono slegate da un possibile contesto o da una supposta concatenazione di eventi e che solo la libera interpretazione dell’osservatore può tentare di ricostruire. Sotto il proflo squisitamente formale, ogni singolo dettaglio presente nelle immagini di Picariello è colto nitidamente come fosse un’opera pittorica, bloccato nel momento in  cui la complessità del reale sembra fermarsi e tutto resta irrimediabilmente sospeso. Lo spettatore che guarda le sue fotografe è costretto a sospendere il giudizio tra il reale e la fnzione, prova ad immaginare cosa sia successo o forse cosa stia per accadere. In questo senso, Picariello gioca sul senso di alienazione e su un’atmosfera di irrealtà che irrompono nel quotidiano, creando un immaginario perturbante e a tratti visionario, grazie soprattutto ad un uso virtuosistico della luce, spesso unidirezionata in chiave caravaggesca e chiaroscurata, atta a creare immagini dal forte impatto percettivo, dotate di un fascino visivo che produce un senso di perspicuità ottica molto pittorica, quasi neo-famminga. In questo modo, le fotografe di Dario Picariello restano velate da un senso di sospensione e di ambiguità, restituiscono non tanto il mondo visibile, quanto quello invisibile che scava nell’imperscrutabile, fatto di emozioni e pensieri, memoria e sintomi.   










—NOTE

1. M. Bachtin, ed. it.
L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale Einaudi, Torino 1979, p. 47.

2. M.Mauss, ed. it.
Una categoria dello spirito umano: la nozione di persona, quella di “io” in “Teoria generale della magia e altri saggi” Torino, Einaudi, 1965

3. M.Mauss, ed. it.
Le Tecniche del corpo, in “Teoria generale della magia e altri saggi”, Torino, Einaudi, 1965

4. M. Bachtin, cit., p. 13

5. La “Mascarata” è anche una folkloristica danza ischitana, tra le più famose danze di spada italiane, legata a Buonopane, frazione del comune di Barano d’Ischia. La tradizione vuole che venga inscenata il giorno del lunedì in Albis, pur non essendo ispirata alla risurrezione del Cristo. Simboleggia un momento di pace e la fne delle ostilità tra gli abitanti di due frazioni, Barano e Buonopane. Le origini di questa danza sono a tutt’oggi poco chiare.

6. A. Boatto, Narciso Infranto. L’autoritratto moderno da Goya a Warhol Laterza, Bari, 2005, p. 193