L’acqua le bagna come il vento le calpesta_
2021
L’acqua le bagna come il vento le calpesta
Alcune note sul lavoro di Dario Picariello
È ormai assodato che viviamo in un mondo segnato dalla seconda rivoluzione digitalica, in cui la pervasività di Internet e dei social network provocano la sclerotizzazione delle immagini che scaturiscono, incessantemente, dall’ipertesto virtuale. In questo scenario complesso ma ancora in fieri e che pertanto sfugge ad ogni analisi esaustiva, la teoria dell’arte si interroga sul destino delle immagini, senza azzardare, tuttavia, modellizzazioni complesse di pensiero ma proponendo, piuttosto, ricognizioni prudenti, mappature e intersezioni degli epifenomeni in corso.
D’altronde, riflettere, analizzare, comprendere le caratteristiche, gli elementi costitutivi, le strutture linguistiche e le forme espressive prodotte dalla dirompenza dei New Media, significa indagare le modalità stesse di creazione, produzione, diffusione e fruizione dell’immagine. Un processo sollecitato da una iper-produzione sclerotizzata dalla rivoluzione multimediale che attraverso la de-realizzazione virtuale del cyberspazio ha profondamente ridisegnato il nostro approccio con la realtà e con la visione.
La rivoluzione digitalica prima, e quella telematica poi, hanno posto ovviamente in questione – e radicalmente, il destino delle immagini fotografiche. È certo che le immagini fotografiche non funzionino più nel modo in cui siamo abituati. Viviamo, sostiene Joan Fontcuberta, un’epoca postfotografica in cui le nozioni di originalità e proprietà, di verità e memoria, diventano sempre più labili. L’era postfotografica nella quale ci troviamo, secondo l’autore, è caratterizzata dalla produzione massiccia di immagini e dalla loro circolazione e disponibilità in internet. Una situazione che mina i valori sociali e funzionali di questo medium1.
L’acqua le bagna come il vento le calpesta è una mostra che raccoglie un corpus recente del lavoro di Dario Picariello, afferente la serie dei Cicli (2020- in corso), che sviluppa, a partire da versi selezionati da alcuni canti popolari, elementi di una più ampia narrazione che investe i grandi temi dell’esistenza umana, come da tradizione nei canzonieri vernacolari, nati per scandire, ed accompagnare, i cicli più importanti della vita dell’uomo.
L’interesse alle tradizioni popolari e vernacolari, al sommerso delle microstorie, l’attenzione al mondo rurale, ci riporta alle linee guide caratterizzanti la ricerca di Picariello, volte da un lato a ripercorrere ambiti e territori della fotografia sociale, dall’altro ad esplorare le possibilità espressive - i limiti, di quella che mi piace definire un’attitudine espansa della fotografia, dove le immagini di partenza fungono sia da assillo tematico sia da materiale e supporto per costruire un percorso immersivo, di irriducibile ambiguità, tra la seconda e la terza dimensione.
Tre le installazioni che scandiscono il percorso espositivo, unificate dal ricorso alla tradizione dei canti popolari, accuratamente selezionati dall’artista per raccontare storie di violenza, sia essa fisica, verbale o psicologica. La parola cantata nei canti vernacolari è espressione estrema di resistenza della voce dell’uomo, rivelandosi oltre la sua grande forza commotiva: dunque non mero strumento di lotta o consolatorio dalla fatica, ma restauratrice di una presenza tesa a riscattare dall’oblio, a restituire identità e dignità, per offrire una possibilità ulteriore, a chi non l’ha avuta, sul piano storico e sociale. È proprio la funzione esorcizzante dei canti ad interessare l’artista, così come l’aspetto ambiguo e volutamente stridente, tra sonorità allegre e storie drammatiche che coesistono in questi componimenti toccanti.
La prima, A Partannisa, il cui sottotitolo recita “canto di ragazze nella raccolta delle olive”, è un’antichissima canzone popolare siciliana, conosciuta in varie versioni2. In quella adottata da Picariello, si narra di un accorato (e inascoltato) appello di una ragazza, che supplica la madre di non mandarla più al mulino per non subire ulteriormente gli abusi del mugnaio. Questa storia diviene l’incipit per costruire Le buone misure (2021), un dispositivo delicato, in cui l’artista si appropria di una foto preesistente che manipola: la presenza umana è annullata attraverso un atto di sottrazione. Le persone ritratte sono cancellate, cucendo sulle loro sagome strisce di carta fotografica. La stampa, su seta, è realizzata a contatto ed è adagiata su una serie di stativi che la sostengono. Gli stativi, insieme agli ombrelli per le luci, attrezzi ineliminabili per lo studio di un fotografo, appartengono ormai da tempo al vocabolario espressivo dell’artista.
Ed infatti in un ombrello da set fotografico si accampa Cinquantaquattro, 2021, un’altra stampa fotografica su seta che ricorre alla stessa strategia estetica di appropriazione e cancellazione. Cinquantaquattro è ispirato a Il lavoro va avanti,3 un canto che narra delle dure condizioni dei braccianti alla metà del secolo scorso, suonando, purtroppo, ancora tristemente attuale. L’artista per questa opera si appropria volutamente di una immagine più antica (54 operai che lavorano alla raccolta delle olive, fine del XIX secolo, Fototeca Georgofili – Fondo R.E.D.A.) per dimostrare, ancora una volta, come il tema della violenza sia meta-temporale.
Non mi mandà più baci per la posta, 2021, infine, è ispirato a Strambellate4, un canto che racconta una relazione tossica tra un uomo e una donna, testimoniando la violenza verbale di una relazione ormai giunta al limite. E sono qui direttamente le parole, e non immagini cancellate, ad affiorare dal corpo dell’opera, accampandosi su una striscia di organza, animata alle sue due estremità da due ventilatori che sembrano quasi vomitare un fiume di parole reso in carta blueback, amara materializzazione della vacuità delle parole.
In questa nuova serie di lavori, come sempre nella sua ricerca, Picariello non si appella alla realtà concreta, sensibile, del dato fotografico. L’artista utilizza la fotografia come mezzo per esplorare la relazione tra ciò che è visibile e ciò che non lo è. Ha lavorato alla serie dei Cicli in modo graduale, nel tempo, studiando fotografie d’epoca, recuperate da diverse fonti, su cui è intervenuto, producendo immagini ambigue, che oscillano pericolosamente tra presenza e assenza.
Lo scopo: riflettere sulla qualità fragile della fotografia e quindi sulla fragilità della nostra vita, così come della nostra stessa storia. Usando gli strumenti legati al “mestiere” della fotografia, Picariello risemantizza queste immagini, dona loro una seconda possibilità, spingendole oltre se stesse, oltre la condizione per la quale sono state realizzate.
Picariello attinge in questa serie di lavori alla tradizione della fotografia sociale. D'altronde, fin dalla sua nascita, nella prima metà dell’Ottocento, la fotografia ha volto, quasi naturalmente, l’obiettivo verso situazioni di difficoltà e di degrado, svelando drammi nascosti, condizioni di maltrattamento, oblio o abuso sulle categorie più deboli, spesso l’infanzia e le donne, che hanno rappresentato – e rappresentano tuttora – le parti più oscure della nostra società cosiddetta civile5.
Ma la ricerca di Picariello si spinge oltre: il lavorare su materiali esistenti, quello che Nicolas Bourriaud ha definito, con una formula fortunata, la post-produzione6, è un'autoreferenzialità che, in qualche modo, segna l'età adulta di questo medium, quando la fotografia stessa diventa soggetto, espressione, come ho scritto all’inizio, di un’attitudine espansa. Picariello illumina questi passaggi, escogita nuovi sensi che affiorano nello scarto da un linguaggio a un metalinguaggio, e non parlo di ibridazione della fotografia con altri media. Ilsecolo breve (E. Hobsbawm) pullula di sperimentazioni metafotografiche, ampiamente percorse dalle avanguardie e dalle neo-avanguardie novecentesche: Futurismo, Surrealismo e Costruttivismo ne fanno ampio uso, così come le sperimentazioni concettuali dagli anni Sessanta in avanti.
Picariello opta per un uso anticonvenzionale della fotografia, scegliendo di mostrare un'alterità non definibile, oltre l’impulso fotografico stesso: le sue opere possono rappresentare immagini dell'alterità, proiezioni oniriche, scaturigini dell’inconscio, desideri non consapevoli, finanche preveggenze che non si è in grado di immaginare.
Susan Sontag nel primo saggio del suo celebre libro On photography, 1977 scrive: “Non può esistere testimonianza, fotografica o no, di un evento che non abbia già avuto un nome e una definizione. E non è mai la documentazione fotografica che può costruire – o più esattamente identificare – gli eventi; essa dà sempre il proprio contributo solo quando l’evento ha già un nome. Ciò che determina la possibilità di un effetto morale delle fotografie è l’esistenza di una pertinente coscienza politica”7, ed è proprio questo, mi pare, il senso ultimo da attribuire ai Cicli di Dario Picariello.
© Eugenio Viola
Bogotá / Parigi / Napoli, settembre 2021
1 Cfr. J. Fontcuberta, ed. it. La furia delle immagini. Note sulla postfotografia, Einaudi, Torino, 2018.
2 A. Favara, O. Tiby, Corpus di musiche popolari siciliane, Accademia di scienze, lettere e arti, Palermo, 1957.
3 L. R. Alario, Il Canto di Tradizione Orale nell’Alto Jonio Cosentino, Rubettino editore, Catanzaro, 1998.
4 Il canto quotidiano, canti di tradizione orale a Dicomano di Giuseppina Rettori a cura di Marco Magistrali, Associazione Culturale La leggera, Centro di Ricerca e Documentazione sulla Cultura Orale, Rufina (FI), 2016.
5 E penso ai primi, celebri reportage di Jacob Riis e Lewis Hine, impegnati a smascherare lo sfruttamento minorile e le sacche di povertà dell’America agli inizi del XX secolo, ai fotografi di guerra come Don McCullin, ai grandi interpreti della società contemporanea, come Sebastião Salgado, Mary Ellen Mark o Henri Cartier-Bresson.
6 Cfr. N. Bourriaud, ed. it. Postproduction. Come l'arte riprogramma il mondo, postmedia books, Milano, 2004.
7 S. Sontag, ed.it. Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, Torino 1973, p.18.