A FUOCO CONTINUO_
2018
Incantamento, testo di Maurizio Coccia - Direttore Palazzo Lucarini Contemporary
n cartesiana.
Nelle opere recenti di Dario Picariello mi hanno colpito alcuni termini ricorrenti. Intanto, la centralità del corpo. Secondariamente, il ruolo strutturale del concetto di protesi. Le scenografie delle sue foto, a ben vedere, sono tutte impostate secondo l’unità di misura del corpo umano. Anche in quelle dove il corpo manca, è di esso che s’imprime tutta la rappresentazione. La sua assenza, infatti, ne amplifica l’importanza e la funzione. Il fulcro di queste raffigurazioni, però, non sta nel soggetto, nel suo pur evidente tessuto narrativo. Sembra che l’interesse di Picariello per i miti originari sia più un tributo mnemonico e familistico, che il risultato di un’arida riflessione scientifica, tra antropologia e sociologia. Così come risultano lontani – per anagrafe e indole – i tormenti delle performance militanti. Credo piuttosto vada riconosciuta a Picariello la rara e coraggiosa capacità di tradurre elementi biografici in un coerente sistema visivo dotato di senso autonomo. È per questo che credo scorretto soffermarsi sulle sue vicende personali. Non è pudore. La confluenza arte/vita, dopotutto, è ormai moneta corrente, anche negli ambienti meno aggiornati. Si tratta, invece, di qualcosa che riguarda l’assetto generale dell’espressione artistica.
Come sappiamo, il corpo è sempre un dispositivo di comunicazione estremamente radicale, oltre che uno dei più diffusi e studiati. Nell’ultimo secolo l’arte si è progressivamente spostata dalla sua rappresentazione alla presenza effettiva, fisica. Ciò ha comportato diverse conseguenze. Così come la filosofia, la psicanalisi e la scienza hanno sgretolato la compattezza dell’Io, l’arte ha introdotto la caducità, il degrado, la malattia nel suo repertorio espressivo. Ciò che più importa, però, è che il corpo artistico, strappato alla logica della contemplazione e gettato nell’agone della precarietà quotidiana, in questo modo affermi la propria densità politica. Poiché la vita non si svolge mai in due sfere distinte, quella organica e quella sociale, l’esposizione del corpo incarnato conferma la dimensione collettiva dell’esperienza artistica e della civiltà che l’ha generata.
Il corpo, quindi, produce conoscenza. Per Picariello, al di là di barriere empiriche e razionali, trasmette un sapere somatico e sensuale. I suoi sono corpi che richiamano un immaginario cristallizzato, a metà tra ritualità e sogno, dance macabre e alluci- nazione. Gli accessori che assegna alla nudità – re- periti nelle polverose location dove ambienta i suoi tableau – hanno un doppio compito. Da una parte sono estensioni anatomiche che aumentano la capacità comunicativa dei corpi. Dall’altra producono ibridi che superano i limiti fisici e proiettano queste figure nel registro di un’epistemologia alternativa, sapienziale, non cartesiana.
Il corpo, pertanto, è medium e messaggio. Così anche il principio di protesi lascia la retorica del linguaggio visivo e si fa sostegno concreto, integrazione meccanica dell’immagine. Picariello adotta gli accessori tipici del set fotografico e li ingloba in un’estetica del supplemento in cui le gerarchie tradizionali tra basamento e opera evaporano a beneficio di un continuum spaziale e semantico.
La fotografia – per definizione – afferma una zona di irreversibilità. La strategia di Picariello, al contrario, si fonda sull’entropia, sul rifiuto della fossilizzazione. Perché accetta – come noi tutti, da perdente – la sfida biologica. Sa già lo struggi- mento per l’impossibile conservazione. La scomparsa. La nevrosi della memoria. Lo smarrimento. L’incantamento finale.
Come sappiamo, il corpo è sempre un dispositivo di comunicazione estremamente radicale, oltre che uno dei più diffusi e studiati. Nell’ultimo secolo l’arte si è progressivamente spostata dalla sua rappresentazione alla presenza effettiva, fisica. Ciò ha comportato diverse conseguenze. Così come la filosofia, la psicanalisi e la scienza hanno sgretolato la compattezza dell’Io, l’arte ha introdotto la caducità, il degrado, la malattia nel suo repertorio espressivo. Ciò che più importa, però, è che il corpo artistico, strappato alla logica della contemplazione e gettato nell’agone della precarietà quotidiana, in questo modo affermi la propria densità politica. Poiché la vita non si svolge mai in due sfere distinte, quella organica e quella sociale, l’esposizione del corpo incarnato conferma la dimensione collettiva dell’esperienza artistica e della civiltà che l’ha generata.
Il corpo, quindi, produce conoscenza. Per Picariello, al di là di barriere empiriche e razionali, trasmette un sapere somatico e sensuale. I suoi sono corpi che richiamano un immaginario cristallizzato, a metà tra ritualità e sogno, dance macabre e alluci- nazione. Gli accessori che assegna alla nudità – re- periti nelle polverose location dove ambienta i suoi tableau – hanno un doppio compito. Da una parte sono estensioni anatomiche che aumentano la capacità comunicativa dei corpi. Dall’altra producono ibridi che superano i limiti fisici e proiettano queste figure nel registro di un’epistemologia alternativa, sapienziale, non cartesiana.
Il corpo, pertanto, è medium e messaggio. Così anche il principio di protesi lascia la retorica del linguaggio visivo e si fa sostegno concreto, integrazione meccanica dell’immagine. Picariello adotta gli accessori tipici del set fotografico e li ingloba in un’estetica del supplemento in cui le gerarchie tradizionali tra basamento e opera evaporano a beneficio di un continuum spaziale e semantico.
La fotografia – per definizione – afferma una zona di irreversibilità. La strategia di Picariello, al contrario, si fonda sull’entropia, sul rifiuto della fossilizzazione. Perché accetta – come noi tutti, da perdente – la sfida biologica. Sa già lo struggi- mento per l’impossibile conservazione. La scomparsa. La nevrosi della memoria. Lo smarrimento. L’incantamento finale.