MASCARATA _
2016
2016
Disoccultare le immagini, testo di Maria Giovanna Mancini - Storica d’arte
La fotografa è zona di contatto, tra sfere distinte, tra prospettive divergenti, è traccia del reale e segno immaginifco. La fotografa è -lo hanno detto in tanti nel corso del ’900- fgura emblematica della modernità e allo stesso tempo misura del cambiamento epistemico della contemporaneità.
Intorno alla fotografa si è disposto il percorso formativo di Dario Picariello e a partire da essa, alcuni anni fa, si è sviluppata anche la mia prospettiva di ricerca. Intorno alla fotografa e all’occasione mancata di una mostra io e Dario ci siamo incontrati. La mostra, nelle nostre ambizioni, avrebbe dovuto occupare con segni monumentali, gli spazi del palazzo d’Avalos di Procida. L’edifcio che in passato era stato adibito a carcere era stato il set, nient’afatto neutrale, del ciclo fotografco Cinquecentouno (2015) in cui il giovane artista teatralmente abitava, appropriandosene, come il cinquecentunesimo recluso, gli ambienti del falansterio. Non possiamo immaginare come i propositi di intervenire in maniera site-specifc avrebbero indirizzato le soluzioni installative, eppure, siamo sicuri che non sarebbe stata semplicemente una mostra di fotografie.
Nel progetto espositivo Mascarata, la necessità di superare l’efmera superfcie dell’immagine, già emersa nel percorso del giovane artista, ha defnitivamente violato e scompaginato la fotografa che assume a Casa Rafaello una dimensione oggettuale e spaziale.
Picariello opera, prima, il tentativo di stabilizzare l’azione e il suo stesso agire, per poi ricostruire in termini oggettuali e ambientali la complessità del suo sguardo. È un tentativo fallimentare in partenza, perché l’immagine fotografca, per suo stesso statuto, seleziona nella serie temporale un singolo frammento che si racconta non nella sua separatezza e singolarità ma come parte di un fusso. L’immagine appartiene a un tempo passato, quello dell’è stato – ci ha insegnato Roland Barthes- e contemporaneamente al tempo presente, quello della visione. Per via di questa appartenenza ambigua1 allo scorrere del tempo che la fotografa parla sempre di morte. A sottolineare tale condizione, nella pratica di Picariello, vi è la volontà di mettere in scena una ritualità primigenia. Il “sacrifcio”, che condivide con il sacro la radice etimologica, messo in scena da Picariello con l’utilizzo di elementi evocativi come la maschera, il tessuto/sudario, il letto feretro, gli arnesi medici, la brocca d’acqua, ha la capacità di raccordare elementi ormai irrimediabilmente distinti nell’immaginario attuale: folklore, ruralità e i linguaggi del contemporaneo; corpo biologico e corpo politico. L’opera si costruisce in più tempi e in più spazi e la mostra fnale non è che uno dei racconti possibili di una stratifcazione agita continuamente dal giovane artista. Picariello progetta, performa, scatta fotografe, produce elementi installativi a partire dalle immagini e che dialogano con esse. Infne progetta e realizza uno spazio di relazione tra gli oggetti, reliquie della pratica rituale dell’arte; mette in mostra dispositivi simbolici.
L’utilizzo dell’immagine retroilluminata è una soluzione ambigua che ofre allo sguardo del pubblico la duplicità del senso dell’immagine che la lingua inglese verifca nella diferenza tra picture e image2. L’immagine proiettata che si forma attraverso il raggio di luce che la proietta dematerializza il supporto, che diviene temporaneo ed efmero3. Picariello allude a questa capacità dell’immagine di essere allo stesso tempo immagine su supporto, oggetto in sé, e immagine-segno visivo. La luce, si è detto, de-materializza l’immagine, mentre gli stativi, i fash, e gli schermi rifettori restituiscono la presenza oggettuale a tal punto da trasformare gli strumenti tecnici in elementi simbolico-signifcanti. Tra i riti, il sacrifcio, ne hanno scritto Henri Hubert e Marcel Mauss, lo studioso francese padre fondatore della disciplina dell’antropologia, «è un atto religioso che, mediante la consacrazione della vittima, modifca lo stato della persona morale che lo compie e lo stato di certi oggetti di cui la persona si interessa4». Il sacrifcio è insieme amplifcare e distruggere. Si istituisce un contatto tra divino e umano per mezzo di una vittima sacrifcale, animata o inanimata. Il transito, la processione appunto, dall’umano al divino, ne ha scritto Mariapaola Fimiani eleggendo Mauss a voce preminente nell’analisi dell’arcaico, ha il doppio movimento del dono, e allo stesso tempo in virtù della presenza di una cosa sacrifcale libera un potere. «Una doppiezza – scrive la flosofa – segnata dalla perdita e dalla crescita, dalla messa a morte e dalla potenza della vita [...] condizione necessaria della mescolanza e dell’accoglienza incerta, di un métissage irriducibile5». Il rimando al sacrifcio possiede in ogni sua articolazione un aspetto ambiguo: a enfatizzare il carattere bifronte del sacrifcio sono stati gli intellettuali che dal 1937 hanno lavorato al Collège de sociologie. Leiris, che con Bataille e Callois ha condiviso la stagione surrealista, afascinato dalla tauromachia in cui il toro è sia divino che reale, ha attribuito all’eferato rituale dell’uccisione del toro il carattere di rito e festa, di «spettacolo rivelatore di impulsi e tensioni nascoste e profonde6», dove toro e torero hanno un caractère sculptural7. In questo senso il riferimento alle processioni, ai riti attuali che raccontano una persistenza ancora tangibile nella cultura contemporanea rurale di ragioni arcaiche, che l’artista prontamente registra e trasforma nel progetto installativo, fa afacciare alla soglia della rifessione sulle opere di Dario Picariello la nozione di sacrifcio. La ritualità, di cui percepiamo frammenti e non una pedissequa narrazione, è intrisa di quel métissage irriducibile che non può risolvere i poli del discorso in una soluzione dialettica. La ritualità agita attraverso gli oggetti totemici e i mascheramenti, costruiti dall’artista per la realizzazione delle immagini fotografche ma che –alcuni anche in mostra - indipendentemente da essa, assumono un valore artistico autonomo, culmina nell’esecuzione del corpo. Il corpo sparisce dalla stanza-prigione lasciando una traccia fotografca, il suo sudario.
Intorno alla fotografa si è disposto il percorso formativo di Dario Picariello e a partire da essa, alcuni anni fa, si è sviluppata anche la mia prospettiva di ricerca. Intorno alla fotografa e all’occasione mancata di una mostra io e Dario ci siamo incontrati. La mostra, nelle nostre ambizioni, avrebbe dovuto occupare con segni monumentali, gli spazi del palazzo d’Avalos di Procida. L’edifcio che in passato era stato adibito a carcere era stato il set, nient’afatto neutrale, del ciclo fotografco Cinquecentouno (2015) in cui il giovane artista teatralmente abitava, appropriandosene, come il cinquecentunesimo recluso, gli ambienti del falansterio. Non possiamo immaginare come i propositi di intervenire in maniera site-specifc avrebbero indirizzato le soluzioni installative, eppure, siamo sicuri che non sarebbe stata semplicemente una mostra di fotografie.
Nel progetto espositivo Mascarata, la necessità di superare l’efmera superfcie dell’immagine, già emersa nel percorso del giovane artista, ha defnitivamente violato e scompaginato la fotografa che assume a Casa Rafaello una dimensione oggettuale e spaziale.
Picariello opera, prima, il tentativo di stabilizzare l’azione e il suo stesso agire, per poi ricostruire in termini oggettuali e ambientali la complessità del suo sguardo. È un tentativo fallimentare in partenza, perché l’immagine fotografca, per suo stesso statuto, seleziona nella serie temporale un singolo frammento che si racconta non nella sua separatezza e singolarità ma come parte di un fusso. L’immagine appartiene a un tempo passato, quello dell’è stato – ci ha insegnato Roland Barthes- e contemporaneamente al tempo presente, quello della visione. Per via di questa appartenenza ambigua1 allo scorrere del tempo che la fotografa parla sempre di morte. A sottolineare tale condizione, nella pratica di Picariello, vi è la volontà di mettere in scena una ritualità primigenia. Il “sacrifcio”, che condivide con il sacro la radice etimologica, messo in scena da Picariello con l’utilizzo di elementi evocativi come la maschera, il tessuto/sudario, il letto feretro, gli arnesi medici, la brocca d’acqua, ha la capacità di raccordare elementi ormai irrimediabilmente distinti nell’immaginario attuale: folklore, ruralità e i linguaggi del contemporaneo; corpo biologico e corpo politico. L’opera si costruisce in più tempi e in più spazi e la mostra fnale non è che uno dei racconti possibili di una stratifcazione agita continuamente dal giovane artista. Picariello progetta, performa, scatta fotografe, produce elementi installativi a partire dalle immagini e che dialogano con esse. Infne progetta e realizza uno spazio di relazione tra gli oggetti, reliquie della pratica rituale dell’arte; mette in mostra dispositivi simbolici.
L’utilizzo dell’immagine retroilluminata è una soluzione ambigua che ofre allo sguardo del pubblico la duplicità del senso dell’immagine che la lingua inglese verifca nella diferenza tra picture e image2. L’immagine proiettata che si forma attraverso il raggio di luce che la proietta dematerializza il supporto, che diviene temporaneo ed efmero3. Picariello allude a questa capacità dell’immagine di essere allo stesso tempo immagine su supporto, oggetto in sé, e immagine-segno visivo. La luce, si è detto, de-materializza l’immagine, mentre gli stativi, i fash, e gli schermi rifettori restituiscono la presenza oggettuale a tal punto da trasformare gli strumenti tecnici in elementi simbolico-signifcanti. Tra i riti, il sacrifcio, ne hanno scritto Henri Hubert e Marcel Mauss, lo studioso francese padre fondatore della disciplina dell’antropologia, «è un atto religioso che, mediante la consacrazione della vittima, modifca lo stato della persona morale che lo compie e lo stato di certi oggetti di cui la persona si interessa4». Il sacrifcio è insieme amplifcare e distruggere. Si istituisce un contatto tra divino e umano per mezzo di una vittima sacrifcale, animata o inanimata. Il transito, la processione appunto, dall’umano al divino, ne ha scritto Mariapaola Fimiani eleggendo Mauss a voce preminente nell’analisi dell’arcaico, ha il doppio movimento del dono, e allo stesso tempo in virtù della presenza di una cosa sacrifcale libera un potere. «Una doppiezza – scrive la flosofa – segnata dalla perdita e dalla crescita, dalla messa a morte e dalla potenza della vita [...] condizione necessaria della mescolanza e dell’accoglienza incerta, di un métissage irriducibile5». Il rimando al sacrifcio possiede in ogni sua articolazione un aspetto ambiguo: a enfatizzare il carattere bifronte del sacrifcio sono stati gli intellettuali che dal 1937 hanno lavorato al Collège de sociologie. Leiris, che con Bataille e Callois ha condiviso la stagione surrealista, afascinato dalla tauromachia in cui il toro è sia divino che reale, ha attribuito all’eferato rituale dell’uccisione del toro il carattere di rito e festa, di «spettacolo rivelatore di impulsi e tensioni nascoste e profonde6», dove toro e torero hanno un caractère sculptural7. In questo senso il riferimento alle processioni, ai riti attuali che raccontano una persistenza ancora tangibile nella cultura contemporanea rurale di ragioni arcaiche, che l’artista prontamente registra e trasforma nel progetto installativo, fa afacciare alla soglia della rifessione sulle opere di Dario Picariello la nozione di sacrifcio. La ritualità, di cui percepiamo frammenti e non una pedissequa narrazione, è intrisa di quel métissage irriducibile che non può risolvere i poli del discorso in una soluzione dialettica. La ritualità agita attraverso gli oggetti totemici e i mascheramenti, costruiti dall’artista per la realizzazione delle immagini fotografche ma che –alcuni anche in mostra - indipendentemente da essa, assumono un valore artistico autonomo, culmina nell’esecuzione del corpo. Il corpo sparisce dalla stanza-prigione lasciando una traccia fotografca, il suo sudario.
—NOTE
1. Scrive Barthes: «nella fotografa si produce una congiunzione illogica tra qui e un tempo».
Cfr. R. Barthes, ed.it. L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 2001, p. 34.
2. Si veda W.J.T., Mitchell Pictorial turn. Saggi di cultura visuale,
Duepunti, Palermo 2009.
3. D. Païni, R. Krauss, Should we put an end to Projection?,
in «October», vol. 110, autumn 2004, pp. 23-48
4. H. Hubert e M. Mauss, Saggio sul sacrificio, Morcelliana, Brescia 2002, p. 22.
5. M. Fimiani, L’arcaico e l’attuale, Lévy-Bruhl, Mauss, Foucault, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 133.
6. S. Zuliani, Michel Leiris, lo spazio dell’arte, Liguori Editore, Napoli 2002, p. 26.
7. M. Leiris, De la littérature considérée comme une tauromachie [1946], in Id. L’ Âge d’homme, Gallimard, Parigi 2014.
Cfr. R. Barthes, ed.it. L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 2001, p. 34.
2. Si veda W.J.T., Mitchell Pictorial turn. Saggi di cultura visuale,
Duepunti, Palermo 2009.
3. D. Païni, R. Krauss, Should we put an end to Projection?,
in «October», vol. 110, autumn 2004, pp. 23-48
4. H. Hubert e M. Mauss, Saggio sul sacrificio, Morcelliana, Brescia 2002, p. 22.
5. M. Fimiani, L’arcaico e l’attuale, Lévy-Bruhl, Mauss, Foucault, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 133.
6. S. Zuliani, Michel Leiris, lo spazio dell’arte, Liguori Editore, Napoli 2002, p. 26.
7. M. Leiris, De la littérature considérée comme une tauromachie [1946], in Id. L’ Âge d’homme, Gallimard, Parigi 2014.